A proposito di Autonomia ed eteronomia dell’arte di Luciano Anceschi (1937)

Recensione a Luciano Anceschi, A proposito di «Autonomia ed eteronomia dell’arte» (Firenze, Sansoni, 1936), «Letteratura», a. I, n. 1, Firenze, gennaio 1937, pp. 149-153; poi ripubblicata in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia cit.

A proposito di «Autonomia ed eteronomia dell’arte» di Luciano Anceschi

È chiara l’utilità di un lavoro che ponga seriamente i legami storici fra i movimenti dell’Ottocento europeo in vista di una genealogia rigorosa della nuova aristocrazia poetica, dosi, senza amore di tesi particolaristiche, l’apporto delle varie culture alla formazione della cultura decadente, e attraverso le trame personali colga la progressiva purificazione della nozione di poesia pura come ineliminabile chiarimento ad ogni storia letteraria moderna. Il libro di Anceschi, anche se indirizzato a conclusioni teoriche che avremo possibilità di limitare, ci sembra adempiere a tale compito di delicata responsabilità. Basta inoltrarsi in quei congegni vitrei che sono le poetiche decadenti con pesantezza definitoria per mandarli in frantumi, o gonfiarli con esaltative adesioni per nullificarli in un’assurda conquista aristocratica. La sostanziosa medietà fra le incomprensioni accademiche e le irresponsabili celebrazioni culturali, favorita da quella precisione di configurazione nella lontananza che non permette piú in nessun modo di parlar della poesia decadente come poesia di eccezione, pare non manchi allo studio di Anceschi, attentamente problematico e dotato di una continua comprensione per i metodi con cui i poeti trattati si proposero di raggiungere le loro conoscenze vitali.

Una rapida descrizione della linea storica individuata da Anceschi ci persuaderà della certezza di tale lavoro, anche se in seguito dovremo discutere non tanto il metodo implicito quanto l’ipostatizzazione teorica conclusiva.

In un primo capitolo, partendo dal classicismo inglese ci portiamo fino alla posizione teorico-riflessiva di Poe: lungo cammino che si inizia fin dal Sidney, ricco di spunti di disinteresse artistico, si precisa storicamente nel ’700 nelle riflessioni di Shaftesbury e Hutcheson che operano un arricchimento della meditazione estetica inglese nell’accettazione di influssi neoplatonici italiani (nel neoplatonismo sarebbe in fin dei conti l’inizio primo di tali speculazioni verso la poesia pura), nell’Inquiry del Burke che delimita l’autonomia estetica in un ambito di piacere sensorio. All’inizio del preromanticismo William Blake (di cui Anceschi giustamente precisa: «non è con una esagerazione troppo scandalosa che si può dire che il Blake sta al romanticismo inglese come tutte le esperienze dei mistici tedeschi stanno al romanticismo tedesco», p. 22) determina il nuovo territorio della poesia, ed è su questo piano nuovo che Coleridge risente della speculazione tedesca nella sistemazione kantiana e nelle illuminazioni novalisiane (punto in cui si innesta il romanticismo tedesco in questa linea di affermazioni tendente alla poesia pura, adoperandosi Anceschi contro gli sforzi tipo Charpentier, Lalou, Reynaud, che tentavano di negare l’influenza tedesca nel romanticismo inglese: ci sembra però poco sfruttato e, per sfuggire al panorama, troppo incanalato in particolari contributi a singole personalità, il romanticismo tedesco) e sviluppa due posizioni di autonomia ed eteronomia, pure nel sostanziale prevalere della prima nella posizione nuova della immaginazione. Mentre Wordsworth dichiaratamente moralista (quindi eteronomo) arricchisce il romanticismo di eticità, di sentimento, in Shelley coesistono il momento purificatore e quello teleologico dell’arte e in Keats il problema estetico assume la funzione della «fantasia» verso un sostanziale panestetismo metafisico.

Il concetto di poesia pura trova il suo fondatore decisivo in Poe (che Anceschi vede come situato all’incrocio di tre culture diversamente vitali, quella americana, quella inglese e quindi tedesca, quella francese). Per esso la poesia, separata da ogni verosimiglianza come da ogni passione, tende alla musica, al presentimento di un regno di bellezza assoluta ed eterna, indefinibile.

Nel secondo capitolo la storia delle teoriche francesi da Baudelaire a Mallarmé vien derivata dalla linea inglese già descritta: non che Anceschi accetti la nota tesi dello Charpentier nel collegare razzisticamente la poesia francese decadente al romanticismo inglese per un risorgere del comune fondo celtico; egli tende a fissare i legami storico-culturali delle due letterature come di un’unica linea sopranazionale (si riaffermano per quanto blandamente dirette influenze tedesche sulla letteratura francese) attraverso il contatto personale di Baudelaire con Poe. Baudelaire (la trattazione della cui riflessione estetica assume un’ampiezza di saggio autonomo), insoddisfatto delle soluzioni francesi romantiche (Hugo, massimo rappresentante, si era fermato ad una facile e popolare eteronomia), si avvicina piuttosto all’idea orafistica di Gautier e del Parnasse: vicinanza spiegabile solo – il che non pare ad Anceschi – per quel tono assodato di sensibilità ragionata e di impassibilità che c’è nella poesia baudelairiana (scongiuro Anceschi a risparmiarci quell’atroce «bodleriano», grafia approssimativa ed illusoria che implicherebbe un «chitsiano», «scespiriano» ecc.). Diversificandosi realmente da quei due atteggiamenti, Baudelaire si avvicina a Sainte-Beuve, che richiamava esplicitamente ad una sorta di noumenicità della poesia (noumeno per altro, direi, che ha tutti i caratteri del mondo subcosciente) attraverso il suo carattere musicale e a Gérard de Nerval primo iniziatore del wagnerismo francese (ma i contatti diretti di Baudelaire con Wagner non incidono tanto sul concetto di poesia quanto sulla purificazione del romanticismo nelle sue nuove sorgenti metempiriche).

Poe infine fa precipitare quel bisogno di «purificazione dell’atto poetico che non nega il valore spirituale di esso» e lo spinge all’interpretazione metafisica della bellezza, per quanto da lui Baudelaire si diversifichi per il diverso concetto dell’immaginazione, capacità di cogliere rapporti intimi e segreti delle cose, regina di tutte le facoltà, regno del possibile e del sogno in cui si accentua il raggiungimento di poesia pura attraverso una tecnica precisa, laboriosa, ma non astratta dallo sforzo totale del poeta come uomo. (A questo punto mi pare inutile e dispersivo insistere sull’esigenza cristiana dell’estetica baudelairiana: non occorre arrivare a postulare la religiosità baudelairiana quando si senta il valore della sua maledizione, della contemporaneità di inferno e paradiso integrantisi nel regno misterioso e fermentante di corrispondenze).

Nell’esame del simbolismo come arricchimento e sviluppo della linea Poe-Baudelaire, Anceschi affronta il problema Verlaine polemicamente contro una sua pretesa irresponsabilità e ne afferma un processo culturale e riflessivo, costruito assai ingegnosamente, che porta al prevalere dell’esigenza musicale anche dopo la conversione: poesia e preghiera che si esprime mediante la musica. Di Rimbaud ci viene notificata la rivoluzione della lingua poetica dovuta al suo fondamentale bisogno di espressione diretta del mondo, intricato, secondo Anceschi, in due piani irresoluti di arte individuata e di arte come avanguardia del progresso, unificati poi in un poetare come fare, nel genio che esprime sperimentandolo un nuovo mondo metafisico.

Il problema di Rimbaud viene estremizzato in Mallarmé, che in un’atmosfera rarefatta coltiva la piú assurda purificazione della poesia, conduce la propria tecnica alla massima esattezza («quasi tutte le sue poesie sono metafore sorprendenti della sua poetica») approfittando anche direttamente del lavorio estetico inglese e tedesco: un avvicinarsi all’idea pura allusivamente, per evocazione, non discorsivamente, mediante una lingua assoluta, metafisica.

È cosí in Mallarmé che si completa la posizione della poesia pura ed è dopo di lui che tale nozione si può espandere come base di una cultura europea, di una tradizione letteraria comune ad ogni tendenza di sprovincializzamento.

È da quella nozione che nasce la poesia moderna europea, e pare strano che Anceschi voglia limitarne lo sviluppo a particolari tendenze e non a tutto il clima europeo: per fermarci al caso italiano, perché si accenna a «taluni momenti del D’Annunzio, o del dannunzianesimo (il «Convito»), il Conti, il Pascoli e la sua teoria del fanciullino... Croce, il neoplatonismo del Borgese»? Non si deve cadere nell’equivoco di un D’Annunzio decadente solo nel Poema paradisiaco o nel Saint Sébastien, ma si deve vedere il complesso movimento della poesia italiana post-carducciana come il tendere ad un europeizzamento, parzialmente attuato, con fortissimi limiti provinciali, nel D’Annunzio e nel Pascoli, raggiunto piú precisamente con i poeti nuovi.

A questo punto Anceschi introduce una conclusione teorica di cui, nel complesso del libro, malgrado la sana impostazione storica, si presentiva l’esistenza. In queste pagine conclusive viene rapidamente affermata la necessità di un sistema aperto che, opponendosi ai sistemi chiusi dogmatici, segnasse le connessioni che intercorrono fra i vari piani (in verità spesso l’uso simultaneo di piani, sfere, campi, denota una chiarificazione troppo verbale) della vita estetica. Un’estetica razionale, o meglio trascendentale, che, non reagendo egoisticamente di fronte a nuove impostazioni teoriche o a nuove poetiche, sapesse comprenderle nell’attualità della vita estetica, un sistema trascendentale che lasciasse vivere i sistemi cristallizzati riconoscendo il loro limite dogmatico, ma fissasse teoreticamente i vari ideali estetici passati e li fornisse della propria autocoscienza filosofica. In tale idoleggiato sistema aperto Anceschi si limita a determinare l’autonomia del campo estetico dell’arte e la connessione con la vita culturale: concentrandosi cosí sui vari ideali estetici che hanno avuto validità in diversi momenti storici (non si andrebbe molto lontani dal riconoscimento del «gusto» del Venturi), Anceschi enuclea una comune legge intima ad ognuno di essi e generalmente polarizzantesi nei suoi termini opposti in successivi periodi culturali: la dialettica di autonomia ed eteronomia dell’arte. Guardando alla poetica degli artisti, si nota che in certi periodi prevale un impeto extraestetico che relaziona l’arte a tutta la vita, la teleologizza rispetto alla morale, altri in cui invece si accentua il carattere formale di essa. Ma tale dialettica non è solo di periodi, ma vige anche nel gusto di un’epoca, all’interno dei singoli teorici.

Dialettica di momenti dogmatici e parziali che determina la vitalità del campo estetico dell’arte con continue crisi e rivoluzioni. Ma a quale legge ci rimanda? «L’antitesi autonomia-eteronomia è essa stessa questa legge che domina e regge, regolandolo, il momento teorico-pragmatico della riflessione sul campo estetico dell’arte e la vita stessa dell’arte nelle sue espressioni piú individuate», p. 246. Cosí la parte storica del libro varrebbe in funzione esemplare di tale dialettica. Il che renderebbe, secondo Anceschi, possibile una «storia del pensiero estetico come storia delle correnti che si contrappongono infinitamente nella vita della cultura secondo la dialettica che siamo andati vedendo, e una storia dell’arte come ricerca che colga questo continuo processo della vita interna del mondo artistico nella sua concretezza, cioè come storia di un fatto artistico che si svolge secondo l’infinito attualizzarsi di questi due atteggiamenti polari fondamentali», p. 247, liberandosi «dal mito del progresso estetico dell’arte» e dalla condanna della «risoluzione idealistica della storia dell’arte in una somma di monografie particolari».

Limitandosi poi la riflessione sull’autonomia dell’arte in sé come definizione del momento della validità dell’arte, Anceschi distingue due piani interni: uno letterario, presa di coscienza da parte degli artisti della propria attività che si distingue a sua volta in «arte per l’arte» e «poesia pura», uno filosofico che tende ad isolare una sfera teoretica dell’arte. Ma la filosofia trascendentale supera gli atteggiamenti dogmatici come quella che ha il compito di «scoprire con quale legge pura è connesso il mondo dell’esteticità dell’arte nel suo aspetto autonomo», p. 250.

Sorvolando su particolari osservazioni che implicherebbero una continua precisazione terminologica, preferiamo fissarci sui punti critici piú impegnativi e rischiosi.

Anzitutto, su di un piano strettamente teorico dell’estetica, il sistema aperto che dovrebbe superare i sistemi dogmatici, i quali osano definire l’arte, risulterebbe in un precludersi solo a se stesso una posizione delimitativa dell’arte, perché è evidente che anche i legami di connessione, la relatività di tali legami nelle diverse epoche non può liberarci dal dire: l’arte è, magari il «je ne sais quoi», l’ineffabile. Tale purezza trascendentale, forma della relazione tra arte e vita e tra vari piani dell’esteticità, è puramente illusoria: definendo i puri rapporti che intercorrono fra entità diverse, è evidente che tali funzioni implicano la conoscenza quantitativa e qualitativa dei termini connessi.

Una costante ci obbliga a riferirci ai suoi estremi non nelle loro variazioni, ma nella loro vicinanza profonda. E d’altra parte troppo facilmente si scambia il dogmatismo sterile di chi vieta ogni legittimità di eterodossia con la possibilità di un dogmatismo che è implicito in ogni nostra parola vitale. Mi pare che Anceschi in questo suo intelligente tentativo di superare ogni posizione dogmatica abbia scambiato un criterio storico, che deriva anzi dal piú concreto storicismo, con una capacità di conquista teorica. La legge dialettica di autonomia-eteronomia, infatti, o va intesa come criterio storico – e, meglio, come schema che nasce da una costatazione e quindi un tentativo di filosofia della storia riportabile d’altronde nel pieno della riflessione artistica e proprio nel fattivo poetare (e allora autonomia ed eteronomia si cambiano nel processo eterno dell’assolutizzazione della forma nutrita da un abbondante contenuto umano) – o assume infine il valore di poetica e di propedeutica alla poetica.

In quest’ultimo caso mi pare acquistare senso concreto e sta a dimostrarlo la sagoma stessa del libro. Se invece si pretende di dare a quella formula il valore di un superamento teorico delle posizioni idealistiche non si giunge che a un illusorio risultato. L’esigenza di superare la storia dell’arte come somma di monografie e di superare la storia del pensiero estetico come progresso finalistico hanno in Anceschi un sapore sincero, ma non vanno oltre la loro qualità di esigenze: forse che, mediante una storia di poetiche o la poetica di un periodo culturale, si potrà credere di avere assorbito la storia della poesia e che in questa presentazione del pensiero estetico non si nutre la linea ascendente di una purificazione del concetto artistico?

L’avvenire delle storie di poetiche è sicuro in quanto permette di connettere i legami di cultura, lo storicizzabile dei poeti, il residuo programmatico e riflessivo, ciò che forma la poetica di un movimento e su cui sorgono le singole individualità poetiche con caratteri assoluti astoricizzabili. è la storia di poetiche personali inserite in quella di tutto un movimento, che sostituisce le vecchie storie letterarie, ma ciò non implica affatto il superamento della presa di contatto dello speciale, espresso suggerimento che il poeta ci dà nel suo animo. Ed è proprio anzi nell’apertura poetica-poesia che vige precipuamente il compito del critico.

D’altra parte la costatazione-criterio della dialettica autonomia-eteronomia non arriva all’esattezza della vera e propria storia di poetiche, preoccupandosi piú di uno schema che della realtà di una cultura e di una personale poetica in quanto è su di essa che nasce la poesia. Poiché Anceschi vuole dare al suo libro un carattere di esempio della sua teoria, mentre è evidente che tale teoria è sgorgata dalla realtà storica del periodo studiato, che il problema autonomia-eteronomia ha un particolare carattere nei riguardi della storia della poesia pura (diverso, poniamo, da quello che può assumere nel contrasto fra il razionalismo formalistico del primo Settecento e la poetica contenutistica del sensismo). La costatazione empirica di tale dialettica per cui a periodi di passività artistica di fronte ad interessi estraestetici seguono periodi di purificazione del concetto artistico, tanto nella storia del pensiero estetico, quanto nelle concrete poetiche, non ci può suggerire piú che un utile strumento di lavoro ai fini della ricerca delle poetiche e delle affermazioni riflessive.

Se si dà a quella dialettica uno speciale valore nel caso della poesia pura si deve accentuare, come Anceschi fa, la direzione verso il prevalere del primo termine, cui l’altro non significa che o pedana di slancio (come sembra nel caso di Wordsworth o di Emerson nei riguardi di Poe) o arricchimento parziale entro lo stesso ambito di una personale poetica.

Sicché mi sembra che il vero valore del libro (valore per me importantissimo) consista nella storia della poesia pura, nella storia delle riflessioni estetiche, che hanno fondato la tradizione della poesia moderna. In questo senso il libro acquista quel valore fondamentale che gli abbiamo attribuito all’inizio del discorso, mentre la formula fa qui sentire a volte la sua pretesa esemplare interponendo questo sovrapposto interesse a quello genuino storico-culturale. Il valore autonomo della formula risulta dai limiti stessi del lavoro, in cui la posizione di Mallarmé a chiusura – mentre posizioni sofistiche come quella del Brémond avrebbero prolungato il problemismo dialettico – è avvertimento perentorio che mira alla storia della formazione di una cultura di un clima letterario in cui Mallarmé diventa come il Petrarca di un dolce stil novo ingigantito ed europeo. Né ci risulta che l’amore per l’antitesi abbia spinto Anceschi ad inserire nel suo libro posizioni veramente eteronome come quella di Tolstoj, esulante dalla tradizione della poesia pura.

La tesi ci soffoca quando la tensione fra i due momenti dialettici è portata nell’ambito della vita interna di alcuni poeti piú nativi ed irriflessivi, come Verlaine, là dove la responsabilità del poeta si limita a interna ricerca di giustificazione tecnica. Verlaine, ad esempio, ha portato un sentimento nuovo nella musica che sorge, senza che egli se ne sia fatto un problema spirituale, da un’attenzione poetica a quel misterioso regno analogico oltre il quale il suo misticismo anche dopo la conversione non può salire.

E qui mi sembra di toccare quel punto in cui si rivela la particolare necessità di tali momenti antitetici ed unificati nell’ambito della poesia pura. Nei poeti che preparavano ad attuare, durante e dopo il romanticismo, la rivoluzione letteraria della poesia pura, è fondamentale la costatazione o la scoperta, a seconda della sofferenza personale, di una regione spirituale inesplorata, dello «jenseits der Dinge», di un subcosciente metafisicamente ricco di condanne infernali e di valori paradisiaci; l’attenzione dei poeti si sposta dalle cose nella loro realtà non sotterranea e dall’investigazione dell’uomo come struttura oggettiva, chiaramente cognita nella sua vita di sentimenti, ad un unico approfondimento di un regno metempirico da cui si spiegano, con sottili legami, le cose e l’uomo nella sua complessità di presentimenti, di stati prepsicologici. È dunque un misticismo irrazionalistico che si incontra con l’adorazione neoplatonica della bellezza assoluta: dallo stesso fondo si diramano la sensazione dell’oscuro sconosciuto mondo di cui il poeta è solo veggente e l’adorazione della bellezza assoluta. Da una parte quindi tendenza a rapire gli echi di quel mondo reale ed assoluto, dall’altra una fede lucida in una conoscenza sempre piú vicina dell’idea, necessità di arricchire la propria esperienza e di purificarla con la massima precisione come divinità trascendente. Perciò poesia è preghiera, come unica espressione dei motivi radicali della vita e come elevazione ad assoluti valori che da quelle stesse radici traggono origine.

Si capirà cosí il nostro rimprovero di aver trascurato il presentimento rapsodico di Lautréamont. L’aspetto di rivelazione e quello di adorazione della poeticità in assoluto si unificano nella nozione di poesia pura. E non c’è contrasto in questo nuovo itinerarium mentis in Deum.

Il libro di Anceschi, limitato al suo valore, per noi importantissimo, di storia della nozione di poesia pura, fondato su documentazioni perentorie e capace non tanto di un arricchimento del nostro gusto rispetto a quei poeti quanto di una sicura revisione entro uno dei problemi che maturarono quel nuovo animus poetico, storicamente accertabile, rientra fra quegli studi «utili», sí che nessuno potrà prescinderne per una storia della poesia moderna, e d’altra parte indica un tipo di lavoro storico-culturale che approfondisce la nostra coscienza della poesia e stabilizza la condizione entro cui sorge la conoscenza delle precise entità poetiche.